SEZIONI UNITE PENALI
SENTENZA
26.10.2023 (23.02.2024) – 8052/24
(Presidente Cassano – Estensore Silvestri – Imputato Rizzi)
Massime
(Rv. 285852) Il divieto previsto dall’art. 240-bis cod. pen., introdotto dall’art. 31 legge 17 ottobre 2017, n. 161, di giustificazione della legittima provenienza dei beni oggetto della confisca c.d. allargata, o del sequestro ad essa finalizzato, sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale, si applica anche ai beni acquistati prima della sua entrata in vigore, ad eccezione di quelli acquisiti nel periodo compreso tra il 29 maggio 2014, data della sentenza delle Sezioni unite n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, e il 19 novembre 2017, data di entrata in vigore della legge n. 161 del 2017..
Motivazione1
RITENUTO IN FATTO
[il processo]
1. Con ordinanza del 17 ottobre 2022 il Tribunale di Bari, in parziale accoglimento dell’appello proposto da R., ha disposto la restituzione della somma di Euro 94.926,37, confermando nel resto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 240-bis cod. pen.
Il reato in ragione del quale è stato disposto il sequestro preventivo è quello di concussione: R., abusando della qualità e dei poteri di dirigente medico presso il Dipartimento di oncologia dell’Istituto Tumori IRCCCS Giovanni Paolo II di B., assunto con contratto di lavoro esclusivo a tempo pieno e indeterminato dal 10 settembre 2017, non essendo autorizzato ad eseguire prestazioni intra o extra moenia, avrebbe costretto un paziente al pagamento di denaro o altre indebite utilità, nella misura complessiva di Euro 127.600, in occasione delle somministrazioni di farmaci presso la struttura ospedaliera e presso il CAF Patronato Labor di B., in uso alla compagna S.M. (reato accertato dal 22 dicembre 2018 al dicembre 2019).
Dall’imputazione provvisoria del titolo cautelare risultano inoltre contestati a R. anche il reato di truffa in danno di un altro paziente e quello di truffa aggravata ai sensi dell’art. 640, comma secondo, n. 1, cod. pen., commesso in danno dell’ente pubblico dal quale percepiva l’indennità di esclusività.
2. Ha presentato ricorso per cassazione il difensore dell’imputato deducendo violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo, da una parte, alla non applicabilità al caso di specie del limite probatorio previsto dall’art. 240-bis, primo comma, cod. pen., introdotto dall’art. 31 della legge 17 ottobre 2017, n. 161, secondo cui il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale, nonché, sotto altro profilo, al criterio della c.d. “ragionevolezza temporale” della ablazione.
2.1. Quanto al primo tema, deduce il ricorrente che, rispetto all’allegazione difensiva, relativa alla provenienza del denaro sequestrato da redditi leciti non dichiarati al fisco (nella misura, secondo quanto si legge nell’ordinanza impugnata, di Euro 252.204,00 per ogni anno dal 2010 al 2017), il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto, recependo un orientamento della giurisprudenza di legittimità, che il limite probatorio indicato trovi applicazione anche in relazione ai beni acquisiti anteriormente alla sua entrata in vigore; secondo l’opzione interpretativa recepita dal Tribunale, la confisca c.d. allargata, in ragione della sua natura giuridica di misura di sicurezza, sarebbe disciplinata dalle norme previste dagli artt. 200 – 236 cod. pen. e, dunque, dalla legge in vigore al tempo della sua applicazione.
Secondo il ricorrente, invece, la confisca c.d. allargata avrebbe carattere punitivo – sanzionatorio, e, anche in considerazione dei criteri affermati dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, natura “penale” e, dunque, dovrebbe essere soggetta ai principi previsti dall’art. 7 CEDU e, in particolare, a quello di irretroattività della legge sopravvenuta sfavorevole.
Il limite probatorio introdotto con la legge n. 161 del 2017 si argomenta, ricollegandosi alla dimensione civilistica di ripartizione degli oneri dimostrativi, avrebbe natura procedimentale, e, in applicazione dell’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, non potrebbe trovare applicazione con riguardo alle ricostruzioni patrimoniali relative a beni acquisiti prima della sua entrata in vigore (in tal senso, si richiama Sez. 1, n. 1778 del 11/10/2019, dep. 2020, Ruggieri, Rv. 281171-01).
Tale opzione interpretativa sarebbe avallata dalla Corte costituzionale – che, con la sentenza n. 33 del 2018, avrebbe equiparato le norme processuali sfavorevoli a quelle sostanziali – e dall’indirizzo dottrinale che attribuisce valenza sostanziale alle norme processuali in tema di prove, di esecuzione della pena e di misure cautelari coercitive personali.
Sulla base di tale presupposto viene richiamata la richiesta di misura cautelare da cui emergerebbe che R. ha a lungo svolto “attività extra ospedaliera contra legem ed ha vissuto utilizzando le somme ricevute in nero non intaccando i redditi stipendiali”; R. avrebbe guadagnato 252.204 Euro all’anno e la misura cautelare sarebbe stata illegittimamente estesa all’intero patrimonio del ricorrente dal 2010, ad eccezione dei lasciti immobiliari ricevuti in donazione o per successione ereditaria.
2.2. Con il secondo motivo, si censura l’ordinanza impugnata, deducendo la violazione del principio di ragionevolezza temporale e lamentando, in particolare, la mancanza di motivazione quanto alla retrodatazione del periodo di illecita accumulazione al 2010.
3. La Sesta Sezione penale, cui era stato assegnato il ricorso, con ordinanza del 30 marzo 2023, lo ha rimesso alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618, comma 1, cod. proc. pen., per vedere risolto il contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità in ordine al se per il soggetto destinatario di un provvedimento di confisca c.d. allargata – o di sequestro finalizzato a tale tipo di confisca – il divieto previsto dall’art. 240-bis, primo comma, cod. pen., di giustificare la legittima provenienza dei beni, sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale, valga anche per i cespiti acquistati prima del 19/11/2017, cioè del giorno di entrata in vigore di tale divieto, introdotto dall’art. 31 legge 17 ottobre 2017, n. 161.
Ricostruito il quadro normativo, la Sezione remittente, al fine di delineare i termini del contrasto, ha fatto innanzitutto riferimento alla natura giuridica e alle caratteristiche strutturali della confisca in esame.
L’ordinanza ha ribadito che presupposto della misura è l’accertamento giudiziale della colpevolezza, cristallizzato in una sentenza di condanna o di applicazione della pena, per uno dei reati di particolare gravità ed allarme sociale (c.d. reati spia o matrice o sorgente) che, in quanto idonei ad essere realizzati in forma continuativa ed a procurare ricchezza illecita, sono ritenuti dal legislatore quali indicatori della provenienza illecita dei beni, sia pure non per diretta derivazione del reato.
Si è spiegato come tale accertamento costituisca la base della presunzione relativa in ordine alla commissione di un’ulteriore attività delittuosa da parte del condannato dalla quale siano derivati i beni dì cui, anche per interposta persona, questo dispone; si sono posti in evidenza il carattere relativo di detta presunzione e il correlato onere di allegazione – non una inversione dell’onere della prova – da parte del condannato di fatti e circostanze volti al superamento della stessa presunzione.
La Sesta sezione ha anche fatto riferimento alla necessità che il requisito della sproporzione dei beni rispetto al reddito dichiarato o all’attività svolta sia accertato, secondo le comuni regole di esperienza, con riguardo al momento di acquisizione dei singoli beni.
Ciò premesso, è stata descritta la questione rimessa alla decisione delle Sezioni Unite, chiarendo come essa attenga al contenuto e alla portata dell’onere di allegazione da parte del condannato – o, come nel caso di specie, dal soggetto destinatario del provvedimento di sequestro – al fine di superare la presunzione di illecita provenienza dei beni.
L’ordinanza ha richiamato l’art. 31 della legge n. 161 del 2017, che, come detto, ha introdotto all’art. 12-sexies, d.l. 8 giugno 1992, n. 306 – convertito con la legge 7 agosto 1992, n. 356 – la previsione, poi integralmente trasposta anche nell’attuale art. 240-bis cod. pen., secondo cui il condannato per un reato-spia non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale.
Si è infine delineato il contenuto del contrasto, spiegando come nella giurisprudenza di legittimità siano emersi due diversi indirizzi. in ordine all’applicabilità del divieto indicato anche ai fini della prova della legittima provenienza del beni acquisiti anteriormente all’entrata in vigore della legge (19 novembre 2017).
Secondo un primo orientamento, la norma in questione avrebbe natura processuale, perché introdurrebbe per il condannato un divieto probatorio destinato ad operare nel contesto della operazione di ricostruzione delle sue capacità economiche; detta norma, in ossequio a criteri di ragionevolezza e tutela dell’affidamento, non potrebbe trovare applicazione, anche nei procedimenti in corso, in relazione alle ricostruzioni patrimoniali relative ad anni anteriori a quello di sua introduzione.
Si è evidenziato come, secondo l’opzione interpretativa in esame, solo in relazione alla confisca di prevenzione – rispetto alla quale il presupposto di pericolosità soggettiva può essere fondato anche su condotte di sistematica e ricorrente evasione fiscale (se penalmente rilevanti) – le Sezioni Unite abbiano escluso che la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del proposto possa essere giustificata adducendo proventi da evasione fiscale (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260244 – 02).
Dunque, secondo l’indirizzo in parola, proprio i principi affermati con la sentenza indicata consentirebbero di ritenere, ex adverso, che, almeno fino all’entrata in vigore della legge n. 161 del 2017, per la confisca allargata fosse consentito giustificare la sproporzione di valori tra redditi e investimenti facendo riferimento ai redditi leciti non dichiarati al fisco (in tal senso, Sez. 1, n. 1778 del 11/10/2019, dep. 2020, Ruggieri, Rv. 278171-01 e, senza aggiungere ulteriori considerazioni, Sez. 3, n. 11599 del 16/12/2021, Avolio, non mass.; Sez. 5, n. 46782 del 04/10/2021, Russo, non mass.; Sez. 1, n. 37287 del 03/06/2021, Pioggia, non mass.; Sez. 6, n. 23243 del 09/03/2021, Passarelli, non mass.).
Secondo un diverso orientamento, il divieto probatorio in questione troverebbe invece applicazione anche con riguardo ai beni acquisiti prima dell’entrata della legge n. 161 del 2017 (Sez. 2, n. 6587 del 12/01/2022, Cuku, Rv. 282690-01; Sez. 2, n. 15551 del 04/11/2021, dep. 2022, Gallace, Rv. 283384-01), in ragione della natura di misura di sicurezza, ancorché atipica, della confisca allargata e, di conseguenza, del combinato disposto degli artt. 199 e 200 cod. pen., richiamati, quanto alle misure di sicurezza patrimoniali, dall’art. 236, comma secondo, cod. pen.
Le misure di sicurezza non sarebbero soggette al principio di irretroattività di cui all’art. 25 Cost. e 2 cod. pen. e sarebbero invece regolate dalla legge vigente al momento della loro applicazione (nello stesso senso, Sez. 2, n. 22058 del 18/04/2023, Giglia, non mass; Sez. 6, n. 10684 del 17/01/2023, Del Gaudio, non mass; Sez. 5, n. 8217 del 13/01/2022, Foti, non mass).
4. La Prima Presidente di questa Corte con decreto del 15 giugno 2023 ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite.
5. Il 10 ottobre 2023 è pervenuta una memoria difensiva nell’interesse del ricorrente con cui sono stati ripresi e sviluppati ulteriormente gli argomenti posti a fondamento del motivo di ricorso.
6. Il 17 ottobre 2023 sono state presentate dall’Avvocato generale note scritte di udienza con cui si è evidenziata, da una parte, l’incidenza non esclusivamente processuale della norma introdotta con la legge n. 161 del 2017, e, dall’altra, la piena applicabilità alla confisca allargata, in considerazione della sua natura di misura di sicurezza, dell’art. 200 cod. pen., con la conseguente operatività del divieto probatorio anche per i cespiti acquistati, come nella specie, prima della sua entrata in vigore, il 19 novembre 2017.
CONSIDERATO IN DIRITTO
[la questione di diritto]
1. Le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi sul seguente quesito: “se per il soggetto destinatario di un provvedimento di confisca c.d. allargata o di sequestro finalizzato a tale tipo di confisca il divieto – già stabilito dall’art. 12-sexies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, come sostituito dall’art. 31 della legge 17 ottobre 2017, n. 161 e oggi previsto dall’art. 240-bis, primo comma, cod. pen. – di giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale, valga anche per i cespiti acquistati prima del 19/11/2017, ossia prima del giorno di entrata in vigore dell’art. 31 della legge n. 161 del 2017″.
2. La Sezione rimettente ha correttamente rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale avente ad oggetto l’ambito applicativo, in assenza di una espressa disciplina transitoria, della portata del divieto, introdotto dall’art. 31 della legge 17 ottobre 2017, n. 161 (oggi previsto dall’art. 240-bis, primo comma, cod. pen.) di giustificare, per il soggetto destinatario di un provvedimento di confisca c.d. allargata, la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale.
[primo orientamento: retroattività del divieto]
1.1. L’orientamento che afferma l’indifferenziata retroattività del divieto in questione presuppone il principio, in più occasioni affermato dalle Sezioni Unite, secondo cui la confisca c.d. “allargata”, prevista dall’art. 240-bis cod. pen., costituendo una misura di sicurezza atipica che replica alcuni caratteri della misura di prevenzione antimafia, è regolata dalla legge vigente al momento della sua applicazione, in quanto postula la valutazione in termini di attualità della pericolosità sociale secondo i parametri normativi in quel momento in vigore, seppur successivi al sorgere della pericolosità o all’acquisizione dei cespiti oggetto di ablazione (in tal senso, da ultimo, Sez. U, n. 27421 del 25/02/2021, Crostella, in motivazione; Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella, in motivazione; Sez. U, n. 29022 del 30/5/2001, Derouach, in motivazione).
L’indirizzo in parola ritiene che il divieto introdotto dalla legge n. 161 del 2017 non abbia una valenza esclusivamente processuale, inerendo, invece, anche alla struttura della fattispecie ablatoria, sicché non vi sarebbero ostacoli alla sua applicazione retroattiva.
[primo orientamento: irretroattività del divieto]
1.2. L’indirizzo opposto, che esclude l’operatività del divieto probatorio per i beni acquisiti negli anni anteriori a quello della sua entrata in vigore, si sviluppa valorizzando due argomenti.
Il primo attiene alla necessità di non sovrapporre, con riferimento alle modalità di ricostruzione della sproporzione tra beni e redditi o attività, la confisca c.d. allargata e quella di prevenzione.
In tal senso si evidenziano i principi affermati dalle Sezioni Unite secondo cui solo con riguardo alla confisca di prevenzione deve escludersi che la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del proposto possa essere giustificata adducendo proventi da evasione fiscale (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, cit.).
Dunque, si argomenta, almeno fino all’entrata in vigore della legge n. 161 del 2017, per la confisca allargata era invece consentito giustificare la sproporzione di valori tra beni e redditi facendo riferimento alle condotte di evasione fiscale e ciò anche in ragione del fatto che dette condotte non erano ricomprese nell’elenco dei reati-spia.
Il secondo argomento attiene invece alla natura del limite probatorio introdotto con la novella del 2017.
Pur concordando sulla natura di misura di sicurezza “atipica” della confisca allargata e sulla sua applicabilità anche ai compendi patrimoniali acquisiti in epoca precedente alla entrata in vigore della disposizione che ha introdotto detta misura ablatoria, l’orientamento in esame pone tuttavia in connessione il divieto introdotto nel 2017 non con la dimensione penalistica dell’istituto, quanto, piuttosto, con un ambito più strettamente civilistico, relativo alla ripartizione degli oneri probatori tra le parti contrapposte; si attribuisce, quindi, al divieto natura procedimentale e lo si ritiene inapplicabile, secondo i principi di ragionevolezza e di tutela dell’affidamento, nelle operazioni di ricostruzione patrimoniale relative ad anni antecedenti a quello in cui è stato introdotto.
[la confisca allargata]
3. La questione rimessa alla decisione delle Sezioni Unite involge profili distinti.
Il primo attiene alla struttura della fattispecie ablatoria prevista dall’art. 240-bis cod. pen., alla sua base legale, così come definita anche dal diritto vivente, e alla sua natura giuridica.
Il secondo profilo riguarda le modifiche normative apportate all’originario modello legale e, in particolare, la natura e l’oggetto del divieto introdotto dall’art. 31 della legge n. 161 del 2017, il suo concreto ambito operativo, l’esigenza di valutare la sua operatività alla stregua di istanze espressione di plurimi principi di rilievo anche costituzionale.
4. Il rilancio dell’istituto della confisca è storicamente legato alla sua utilizzazione come misura di prevenzione, in funzione di contrasto della criminalità organizzata e, in particolare, mafiosa.
La strategia preventiva di aggressione dei beni, in considerazione delle utilità sostanziali e processuali che è in grado di assicurare, ha prodotto nel corso del tempo iniziative volte a trasferire dal piano amministrativo a quello penale la logica delle misure dì prevenzione.
Con l’art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356 si sanzionava penalmente, in capo a soggetti indagati per gravi reati di criminalità organizzata o sottoposti a misure di prevenzione personali, la disponibilità di denaro, beni o altre utilità di valore sproporzionato al proprio reddito o alla propria attività economica e dei quali non fosse giustificata la legittima provenienza.
Una fattispecie strutturata sulla trasposizione in sede di tipicità penale di uno schema di ripartizione probatoria proprio del sistema delle misure di prevenzione patrimoniali e perciò da più parti considerata priva di rilevanti profili di offensività.
La Corte costituzionale ritenne incompatibile con la presunzione di non colpevolezza il citato art. 12-quinquies, che faceva dipendere la realizzazione di un fatto penalmente rilevante dalla circostanza che il suo autore fosse o meno sottoposto a procedimento penale: si trattava, osservò la Corte costituzionale, di condizioni “instabili come ogni status processuale” che “non legittimano alcun apprezzamento in termini di disvalore: un apprezzamento che varrebbe ineluttabilmente ad anticipare effetti che la Costituzione riserva, invece, soltanto alla sentenza irrevocabile di condanna” (Corte cost., sent. n. 48 del 1994).
Una previsione punitiva, si aggiunse, che ispirandosi a modelli tipici del procedimento di prevenzione, fondava sulla qualità di indagato o di imputato il presupposto soggettivo che rendeva punibile un dato di fatto – la sproporzione non giustificata tra beni e redditi – che altrimenti non sarebbe stato perseguito: la persona indagata o imputata, ancorché presunta non colpevole, veniva sottoposta a pena per una condotta che rimaneva invece penalmente indifferente, ove posta in essere da qualsiasi altro soggetto.
5. Per effetto della disgregazione dell’art. 12-quinquies, il legislatore formulò l’art. 12-sexies legge 7 agosto 1992, n. 356 (introdotto dall’art. 2 d.l. 20 giugno 1994, n. 399, convertito nella legge 8 agosto 1994, n. 501).
Una norma ripropositiva delle finalità che avevano portato all’approvazione della norma dichiarata incostituzionale, riassumibili, secondo la stessa relazione illustrativa, nell’impedire “l’infiltrazione massiccia nel circuito economico dei proventi di attività di tipo mafioso” e nel colpire interi patrimoni derivanti da condotte dal presumibile carattere continuativo (Relazione illustrativa al d.l. 22 febbraio 1994).
Con la nuova forma di ablazione, da una parte, fu superata la fattispecie penale che rendeva punibile autonomamente la condotta di cui si è detto e alla quale si aggiungeva la confisca, e, dall’altra, fu data attuazione all’obiettivo di confiscare le ricchezze non giustificate che fossero nella disponibilità di un soggetto che avesse riportato condanna per uno dei reati già elencati nell’art. 12-quinquies, con l’aggiunta di alcune nuove fattispecie.
Una misura patrimoniale che si colloca in continuità con le forme c.d. “moderne” di confisca alle quali, già da tempo, numerosi Stati europei hanno fatto ricorso per superare i limiti di efficacia della confisca penale “classica”, che aveva evidenziato difficoltà e una limitata operatività con riguardo alla necessità di dimostrare l’esistenza di un nesso di pertinenza – in termini di strumentalità o di derivazione – tra i beni da confiscare e il singolo reato per cui è pronunciata condanna (Corte cost., sent. n. 33 del 2018; Corte cost., sent. n. 24 del 2019).
L’intento del legislatore è apparso subito chiaro: una confisca giustificata dalla particolare gravità dei delitti spia ed in cui la diminuzione patrimoniale è caratterizzata da un forte affievolimento degli oneri probatori gravanti sull’accusa in quanto fondata, nella sostanza, su tre elementi: la qualità di condannato per determinati reati; la sproporzione del patrimonio di cui il condannato dispone, anche indirettamente, rispetto al suo reddito o alla sua attività economica; la presunzione che il patrimonio stesso derivi da altre attività criminose non accertate.
In presenza di determinate condizioni, si presume, cioè, che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone (Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella).
La Corte costituzionale, pur evidenziando come il ricorso a forme di confisca congegnate in base ad uno schema di inversione dell’onere della prova sull’origine illecita dei beni oggetto di confisca sia caldeggiato a livello sovranazionale, ha nondimeno rilevato come “la confisca allargata italiana si caratterizzi, rispetto al modello di confisca “estesa” prefigurato dalla direttiva 2014/42/UE (la quale si limita, peraltro, a stabilire “norme minime”, senza impedire agli Stati membri di adottare soluzioni più rigorose), per il diverso e più ridotto standard probatorio”, atteso che “la sproporzione tra il valore dei beni e i redditi legittimi del condannato – che in base all’art. 5 della direttiva costituisce uno dei “fatti specifici” e degli “elementi di prova” dai quali il giudice può trarre la convinzione che i beni da confiscare “derivino da condotte criminose” – vale, invece, da sola a fondare la misura ablativa in esame, allorché il condannato non giustifichi la provenienza dei beni, senza che occorra alcuna ulteriore dimostrazione della loro origine delittuosa” (Corte cost., sent. n. 33 del 2018).
Si è dubitato della compatibilità costituzionale di uno strumento, come quello in esame, tanto efficace quanto fortemente invasivo, ed in tal senso si è chiarito come la presunzione relativa non realizzi una reale inversione dell’onere della prova, ma si limiti a porre a carico del soggetto destinatario del provvedimento di confisca o di sequestro un onere di allegazione di fatti e circostanze di cui il giudice valuterà la specificità e la rilevanza e verificherà, in definitiva, la sussistenza (così, Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella).
Detti principi sono stati ribaditi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 24 del 2019 in cui si è spiegato che la confisca di prevenzione e la confisca allargata (e i sequestri che, rispettivamente, ne anticipano gli effetti) sono species di un unico genus, costituito dalla confisca dei beni di sospetta origine illecita; si tratta di uno strumento strutturato attraverso uno schema legale di carattere presuntivo caratterizzato “sia da un allentamento del rapporto tra l’oggetto dell’ablazione e il singolo reato, sia, soprattutto, da un affievolimento degli oneri probatori gravanti sull’accusa”.
Gli indubbi rilevanti alleggerimenti probatori per l’accusa trovano un bilanciamento nell’onere di allegazione” da parte del condannato, finalizzato a superare la presunzione di illecita accumulazione; si tratta di un sintagma con cui, se si intendesse fare riferimento ad uno sforzo dimostrativo non puramente formale, si riproporrebbero gli stessi dubbi di costituzionalità riguardanti il meccanismo dell’inversione dell’onere della prova. Infatti, per evitare la confisca (o il sequestro), l’imputato dovrebbe dimostrare in positivo l’origine lecita dei suoi beni, con conseguente rischio di violazione del principio di presunzione di non colpevolezza, in quanto l’inattività (ovvero il silenzio) sfocerebbe in una prova contra se, in grado di condurre alla confisca dei beni.
Un onere di allegazione, invece, che deve limitarsi “a rendere credibile la provenienza lecita dei beni” (Corte cost., sent. n. 33 del 2018).
Dunque, un forte affievolimento degli oneri probatori della pubblica accusa ed un requisito, quello della sproporzione, fondato su un meccanismo para-presuntivo di illecita accumulazione che da solo può fondare una misura ablativa onnivora, generale, onnicomprensiva dell’intero patrimonio del condannato.
Una base legale che trova un bilanciamento nell’onere di allegazione giustificativo della provenienza legittima dei beni, che, se assolto, rompe, superandola, la presunzione e che rende compatibile l’istituto con i principi costituzionali.
Un onere di allegazione giustificativo che si pone tra diritto e prova, tra requisiti di struttura della fattispecie ablatoria e, soprattutto, accertamento processuale, tra tipicità e diritto di difesa; una fattispecie ablatoria in movimento, in divenire, che pone questioni ed esigenze di conformazione di consolidati schemi interpretativi e che, senza cedere a semplificazioni probatorie incontrollate, siano capaci di studiare le condotte e, attraverso il processo, il loro significato obiettivo.
Una allegazione “da valutarsi in concreto nelle singole fattispecie, secondo i principi della libertà delle prove e del libero convincimento” (Corte cost., sent. n. 48 del 1994; Corte cost., sent. n. 464 del 1971; Corte cost., sent. n. 14 del 1971).
6. Nell’ambito della complessità della fattispecie ablatoria in esame, la Corte di cassazione e la Corte costituzionale hanno perimetrato l’ambito di operatività della presunzione di illecita provenienza dei beni secondo il criterio di “ragionevolezza temporale“, ponendo l’accento, sulla base di un percorso ermeneutico affine a quello cui sono pervenute le Sezioni Unite in tema di confisca di prevenzione (Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, Spinelli, Rv. 262605-01), sulla necessità di un collegamento cronologico tra l’attività delittuosa per cui è stata emessa la sentenza di condanna o di applicazione della pena e il momento di ingresso nel patrimonio del singolo bene di valore sproporzionato rispetto al reddito o all’attività economica (Sez. U, n. 27421 del 25/02/2021, Crostella, in motivazione; Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella cit.; Corte cost., sent. n. 24 del 2019).
Un accertamento processuale complesso e scomposto, perché relativo ai singoli beni che nel tempo sono stati acquisiti, e volto a riempire di contenuto di garanzia, attraverso il versante processuale, la struttura di una fattispecie, efficace e, al tempo stesso, invasiva.
7. In tale contesto la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, che si condivide, ha affermato che “ci si trova dinanzi ad una misura di sicurezza atipica con funzione anche dissuasiva, parallela all’affine misura di prevenzione antimafia introdotta dalla legge 31 maggio 1965, n. 575″ (così, Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella cit., ripresa, da ultimo, da Sez. U, n. 27421 del 25/02/2021, Crostella), e che si colloca su una linea di confine con la funzione repressiva propria della misura di sicurezza patrimoniale (Sez. U, n. 29022 del 30/5/2001, Derouach, cit.), come emerge anche dalla sua collocazione sistematica, coniugandosi la finalità dissuasiva con la funzione preventiva della misura, in quanto volta ad evitare il proliferare di ricchezza di provenienza non giustificata ed il suo impiego per ulteriori attività delittuose.
Nello stesso senso si pone la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 24 del 2019, ha chiarito che “la confisca “di prevenzione” e quella “allargata” (e i sequestri che, rispettivamente, ne anticipano gli effetti) costituiscono dunque altrettante species di un unico genus”, identificato nella “confisca dei beni di sospetta origine illecita” e che “l’ablazione di tali beni costituisce non già una sanzione, ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione” .
[S.u. 29.05.2014 Repaci]
8. In tale articolato quadro di riferimento si collocano i principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 33451 del 29/05/2014, Repaci.
La sentenza “Repaci” assume rilievo rispetto alla questione rimessa alla decisione delle Sezioni Unite perché, da una parte, riempie di contenuto probatorio l’onere di allegazione giustificativo della provenienza lecita dei beni, con particolare riguardo alla possibilità per il soggetto che subisce il provvedimento di confisca o di sequestro di fare riferimento ai proventi non dichiarati al fisco, e, dall’altra, contribuisce a scolpire la base legale, il confine della misura ablatoria rispetto al quale successivamente si pone il limite probatorio introdotto con la legge n. 161 del 2017.
La questione controversa rimessa nell’occasione alle Sezioni Unite era se, “ai fini della confisca di cui all’art. 2-ter della I. n. 575 del 1965, per individuare il presupposto della sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto, titolare diretto o indiretto dei beni, dovesse tenersi conto o meno dei proventi dell’evasione fiscale”.
Le Sezioni Unitesi soffermarono lungamente sulla ratio della confisca di prevenzione e sulle differenze ontologiche tra essa e la confisca allargata, spiegando come la confisca ex art. 12-sexies sia connotata da una diversa ratio legis e da presupposti in parte diversi rispetto alla quella di prevenzione, ed evidenziarono come nell’art. 12-sexies la presunzione di illecita provenienza dei beni del condannato sia ancorata letteralmente ed esplicitamente solo alla sproporzione rispetto all’attività economica svolta e all’assenza di giustificazione, e non anche, in alternativa, come invece previsto in tema di prevenzione, alla esistenza di indizi sufficienti della provenienza dei beni da qualsiasi attività illecita.
La confisca allargata consegue alla mancata giustificazione della provenienza delle utilità ed alla sproporzione rispetto ai redditi dichiarati o alla propria attività economica; quella di prevenzione, invece, aggiunge (profilo estraneo alla confisca ex art. 12-sexies, in alternativa “ovvero quando”) la riconducibilità dei beni, sulla base di sufficienti indizi, al frutto di attività illecite ed al reimpiego delle stesse (“beni … che siano il frutto di attività illecite e ne costituiscano il reimpiego”).
Con la sentenza “Repaci” si sottolineò come sia coerente con la delineata diversità strutturale la rilevanza per la sola confisca ex art. 12-sexies dei redditi, derivanti da attività lecita, sottratti al fisco, perché comunque rientranti nella “propria attività economica”.
Altrettanto coerente, con riferimento alla diversa struttura normativa, è la non applicabilità di tali conclusioni alla confisca di prevenzione, per la quale rileva – e dunque non è deducibile a discarico – anche il fatto che i beni siano “il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”.
9. Dai principi indicati deriva, dunque, che nell’adempiere al suo onere di allegazione finalizzato ad incidere sulla “presunzione”, l’interessato, dal 29 maggio 2014, poteva fare riferimento ai redditi di origine lecita non dichiarati al fisco.
Si tratta di principi che assumono rilievo non solo per la portata chiarificatrice della base legale della fattispecie ablatoria, ma anche in ordine alla ragionevole “previsione” delle condizioni che in futuro avrebbero reso possibile superare la presunzione ed evitare la confisca.
Fu attribuita ragionevolezza costituzionale alla presunzione di illecita accumulazione attraverso la valorizzazione soprattutto del diritto di difesa, atteso che il superamento di detta presunzione – in ragione della distribuzione delle incombenze probatorie previste dall’art. 240-bis cod. pen. – è sostanzialmente rimesso alla capacità dimostrativa della liceità dei beni acquisiti da parte del condannato.
È il condannato che, nella dinamica processuale e rispetto alla ripartizione delle incombenze probatorie costruite dal legislatore, è di fatto chiamato ad allegare per evitare la confisca.
Una chiarificazione della base legale conforme all’art. 8 della Direttiva 2014/42/UE secondo cui, nei procedimenti relativi alla confisca allargata, l’interessato deve avere “l’effettiva possibilità di impugnare le circostanze del caso, compresi i fatti specifici e gli elementi di prova disponibili in base ai quali i beni in questione sono considerati come derivanti da condotte criminose”, e – nel rispetto del principio di legalità e di riconoscibilità dell’intervento punitivo – in continuità anche con i dettati della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che, nell’ammettere la conformità ai principi del giusto processo (art. 6 CEDU) della presunzioni su cui si fondano le forme di confisca allargata, ha sempre richiesto che tali presunzioni siano confutabili e che siano garantiti i diritti della difesa, al fine di promuovere la compatibilità di tale forma di ablazione con i diritti fondamentali (cfr., con riferimento ad una forma di confisca assimilabile a quella allargata, Corte EDU, 5/07/2001, Phillips c. Regno Unito, Par.Par. 40 – 47).
10. Con la sentenza “Repaci” le Sezioni Unite, attraverso la concretizzazione di una interpretazione, specificarono il senso e la portata della previsione legislativa, ponendo in connessione norma e accertamento processuale; una definizione in concreto della fattispecie ablatoria, del suo significato, del suo ambito operativo, dell’incidenza dell’accertamento processuale, di ciò che deve essere provato e di come debba esserlo, del modo con cui il contraddittorio e il diritto a difendersi “provando” vengono definiti e configurati.
[prevedibilità delle decisioni e vincolo del precedente]
11. La portata del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza “Repaci” assume rilievo, come detto, anche in relazione alla prevedibilità delle decisioni future e all’affidamento sulle condizioni che dal 2014 potevano legittimare la confisca allargata.
Una regola di stabilizzazione, quella enunciata dalle Sezioni unite, a cui va attribuita una valenza non solo “di tipo essenzialmente persuasivo”, disvelando la potenzialità semantica del testo della disposizione normativa (Corte cost., sent. n. 230 del 2012), ma che, dopo l’intervento della legge 23 giugno 2017, n. 103, ha avuto anche una valenza di precedente relativamente vincolante fino alla entrata in vigore del limite probatorio ad opera della legge n. 161 del 2017.
È noto come con l’inserimento del comma 1-bis nell’art. 618 cod. proc. pen. si preveda che la Sezione semplice della Corte di cassazione, qualora ritenga di non condividere il principio di diritto formulato in una sentenza delle Sezioni Unite, “rimette” a queste ultime la decisione del ricorso.
Si tratta di una norma con cui è stata uniformata la disciplina del rapporto tra Sezioni semplici e Sezioni Unite penali a quanto già previsto per la Corte di cassazione civile dall’art. 374, comma 3, cod. proc. civ., come modificato dall’art. 8 D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 401.
Invero, un’analoga scelta, ancora più risalente, era contenuta nel progetto definitivo del codice di procedura penale, che all’art. 610-bis prevedeva che le Sezioni semplici dovessero uniformare le proprie decisioni ai principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite per dirimere un contrasto e che, in caso contrario, erano obbligate a rimettere il ricorso, esprimendo le ragioni del dissenso.
Questa disposizione non venne approvata dalla Commissione parlamentare, ma è utile segnalare come nella Relazione al codice del 1988 venne comunque precisato che il meccanismo dell’art. 618 cod. proc. pen. avrebbe dovuto essere sempre attivato, quando sulla questione fossero intervenute in precedenza le Sezioni Unite e la decisione potesse dar luogo nuovamente a contrasto.
Dunque, con l’intervento del legislatore nel 2017, è stato introdotto, con riguardo alle sole sentenze delle Sezioni Unite, il vincolo del precedente: un vincolo relativo, in quanto limitato all’interno della sola Corte di cassazione e non operante nei confronti dei giudici di merito.
Un consolidamento della funzione nomofilattica della Corte di cassazione attraverso il ruolo rafforzato che viene assegnato alle Sezioni Unite, le cui sentenze possono avere valore formale di precedente nei confronti delle altre Sezioni penali della Corte a determinate condizioni ed entro certi limiti; un precedente che, ancorché fluido e superabile, produce un vincolo ed esprime una regola di stabilizzazione rispetto alla quale viene procedimentalizzato l’eventuale dissenso della Sezione semplice.
È stato peraltro già chiarito come la portata vincolante del precedente debba essere riconosciuta, come nel caso di specie, anche alle decisioni delle Sezioni Unite intervenute precedentemente all’entrata in vigore della nuova disposizione, posto che il valore di “precedente” è identificabile con la peculiare fonte di provenienza della decisione, indipendentemente dalla collocazione temporale di quest’ultima (Sez. U, n. 36072, del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273549-01).
Ne consegue che dal 2017, per effetto del limite probatorio sopravvenuto, l’assetto normativo, stabilizzato dal 2014 con la sentenza delle Sezioni Unite “Repaci”, fu superato e, rispetto all’accertamento processuale di durata, complesso e scomposto previsto in tema di confisca allargata, fu introdotto un “appesantimento” del contenuto dell’onere di allegazione e del diritto di difendersi provando.
12. Un limite probatorio sopravvenuto che obiettivamente supera il precedente relativamente vincolante formatosi.
Il sistema del precedente vincolante, attribuendo alla regola enunciata dalle Sezioni Unite una valenza di tendenziale stabilizzazione dei rapporti, è funzionale ad assicurare la prevedibilità delle decisioni giudiziarie e, quindi, ad offrire al cittadino la possibilità di conoscere le conseguenze delle libere scelte di azione e di fare affidamento su un assetto normativo stabile.
Il rispetto dei requisiti qualitativi di accessibilità e prevedibilità della norma è conseguente al grado di precisione non solo del testo di legge, ma anche alla stabilizzazione dell’orientamento ermeneutico interno che quella disposizione scolpisce nella sua portata.
Non si tratta di equiparare il diritto vivente alla legge, quanto, piuttosto, di riconoscere al primo un ruolo, una funzione che interferisce con la ragionevole prevedibilità delle decisioni future.
Già attraverso l’adozione di un concetto sostanzialistico di “materia penale” la Corte di Strasburgo ha da tempo lasciato sullo sfondo e superato la necessaria connessione tra la garanzia della prevedibilità e le categorie formali.
Un approccio che ha consentito di estendere le garanzie del nullum crimen alle misure di sicurezza (Corte EDU, 9 febbraio 1995, Welch c. United Kingdom), alle sanzioni amministrativo-punitive (Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia), al diritto processuale penale (Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia).
Il tema della prevedibilità e dell’ ampliamento garantistico” ad esso sotteso è stato allargato oltre la stessa nozione estesa di ‘materia penale’, trovando applicazione anche alla confisca allargata e alle misure di prevenzione (Corte EDU, Grande Camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, ma anche Corte cost., sent. n. 24 e 25 del 2019) e alla gran parte dei diritti di libertà e, in particolare, al diritto di proprietà tutelato dall’art. 1 del Protocollo addizionale CEDU.
Con la sentenza n. 24 del 2019, di cui si è già detto, la Corte costituzionale, dopo aver espressamente assimilato confisca di prevenzione e confisca allargata, ha chiarito che: “pur non avendo natura penale, sequestro e confisca di prevenzione restano peraltro misure che incidono pesantemente sui diritti di proprietà e di iniziativa economica, tutelati a livello costituzionale (artt. 41 e 42 Cost.) e convenzionale (art. 1 Prot. addiz. CEDU) (…) Esse dovranno, pertanto, soggiacere al combinato disposto delle garanzie cui la Costituzione e la stessa CEDU subordinano la legittimità di qualsiasi restrizione ai diritti in questione, tra cui – segnatamente -: a) la sua previsione attraverso una legge (artt. 41 e 42 Cost.) che possa consentire ai propri destinatari, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte EDU sui requisiti di qualità della ‘base legale’ della restrizione, di prevedere la futura possibile applicazione di tali misure (art. 1 Prot. addiz. CEDU); b) l’essere la restrizione ‘necessaria’ rispetto ai legittimi obiettivi perseguiti (art. 1 Prot. addiz. CEDU), e pertanto proporzionata rispetto a tali obiettivi, ciò che rappresenta un requisito di sistema anche nell’ordinamento costituzionale italiano per ogni misura della pubblica autorità che incide sui diritti dell’individuo, alla luce dell’art. 3 Cost.; nonché c) la necessità che la sua applicazione sia disposta in esito a un procedimento che – pur non dovendo necessariamente conformarsi ai principi che la Costituzione e il diritto convenzionale dettano specificamente per il processo penale – deve tuttavia rispettare i canoni generali di ogni ‘giusto’ processo garantito dalla legge…., assicurando in particolare la piena tutela al diritto di difesa (art, 24 Cost.) di colui nei cui confronti la misura sia richiesta”.
I requisiti di accessibilità e prevedibilità assumono dunque rilievo anche per la confisca allargata.
13. In tale articolato contesto si colloca la questione rimessa alla decisione delle Sezioni Unite.
Una questione essenzialmente di diritto intertemporale, ma che, tuttavia, involge tematiche più ampie, quali quelle della portata del precedente costituito dalla sentenza delle Sezioni Unite “Repaci”, della prevedibilità delle decisioni, dell’affidamento incolpevole, della effettività del diritto di difesa.
[l. 17.10.2017 n. 161 e denaro provento o reimpiego di evasione fiscale]
14. La disposizione dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356 del 1992, è stata, nel tempo, oggetto di numerose modifiche, attraverso le quali si è potenziato e ampliato il campo di operatività della confisca, lasciandone, tuttavia, sostanzialmente inalterate le condizioni di applicabilità.
Si è determinata un’espansione considerevole dell’ambito di applicazione di tale forma di confisca, ampliando il catalogo dei reati-spia mediante interventi novellistici, talvolta ispirati a logiche tra loro non sempre omogenee rispetto a quella originaria dell’istituto, finalizzata all’introduzione di uno strumento di contrasto alla infiltrazione del crimine organizzato nell’economia.
Oltre alle novelle che hanno unicamente ampliato l’elenco dei reati presupposto, ve ne sono state altre che hanno disposto cambiamenti più articolati.
14.1. Tra queste assume rilievo la legge 17 ottobre 2017, n. 161 che all’art. 31, da una parte, ha riscritto il contenuto della norma prevista dell’art. 12-sexies, comma 1, mediante l’inserimento in esso dell’intero elenco dei reati presupposto, prima scisso nei commi 1 e 2, e, dall’altra, ha apportato consistenti innovazioni alla disciplina preesistente.
È stato infatti introdotto il divieto in ogni caso per il condannato di giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale.
Con la legge indicata è stato previsto un limite probatorio di eguale tenore anche per la confisca di prevenzione; l’art. 5 della legge n. 161 del 2017, al comma 8, ha infatti modificato l’articolo 24 del Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, D.Lgs. 6 settembre 2011 n. 159, escludendo che la legittima provenienza dei beni possa essere giustificata adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego di evasione fiscale.
Il limite probatorio introdotto per la confisca allargata è stato ulteriormente riformato dal legislatore che, per coordinare tale disciplina con le disposizioni in materia tributaria e di condono fiscale, con l’art. 13- ter, comma 1, del d.l. n. 148 del 2017 (convertito con modificazioni dalla legge 4 dicembre 2017, n. 172) ha aggiunto all’art. 12-sexies l’ulteriore previsione secondo cui il limite probatorio è escluso se “l’obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge”, così garantendo anche il principio di unitarietà e non contraddizione dell’ordinamento.
L’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, è stato, successivamente, abrogato dall’art. 7, comma 1, lett. I), del D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, e la disciplina della confisca “allargata” è stata sostanzialmente trasposta nel dettato del nuovo art. 240-bis cod. pen., introdotto dall’art. 6, comma 1, del D.Lgs. n. 21 del 2018.
L’art. 39 del d.l. n. 124 del 2019, convertito con legge 157 del 2019, ha infine introdotto il nuovo art. 12 – ter nel D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 prevedendo l’applicazione della confisca allargata, ex art. 240-bis cod. pen. in caso di condanna, o applicazione della pena su richiesta delle parti, per i delitti previsti dagli artt. 2, 3, 8, e 11 del medesimo D.Lgs. n. 74 del 2000.
14.2. È utile fare riferimento ai lavori preparatori e, in particolare, al Dossier del Senato collegato alla Proposta di legge n. 2134, esitata nell’approvazione della legge n. 161 del 2017.
Il diritto vivente è illustrato facendo riferimento alla sentenza “Repaci” delle Sezioni Unite e ai principi in essa affermati in ordine alle due differenti situazioni.
Si chiarisce come, in tema di confisca di prevenzione, la giurisprudenza di legittimità avesse negato che i proventi dell’evasione fiscale potessero rilevare per giustificare la provenienza legittima dei beni e che in tali termini si erano espresse anche le citate Sezioni Unite.
Si fa espresso riferimento alla composizione del contrasto giurisprudenziale da parte delle Sezioni Unite con riguardo alla c.d. confisca allargata e al recepimento dell’orientamento favorevole alla possibilità che, ai fini del superamento del requisito della sproporzione, si possa “tener conto dei redditi, derivanti da attività lecita, sottratti al fisco, perché comunque rientranti nella propria attività economica”.
L’esplicito riferimento ai principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza “Repaci” rivela dunque la volontà del legislatore di armonizzare il quadro delineato dal diritto vivente, da un lato, positivizzando il limite probatorio in tema di confisca di prevenzione delineato dalle Sezioni semplici della Corte e avallato dalle Sezioni Unite “Repaci”, e, dall’altro, superando in maniera esplicita il principio espresso dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza in questione con riguardo alla rilevanza probatoria della condotta di evasione fiscale in tema di confisca allargata.
[il destinatario della confisca]
15. Con la norma introdotta nel 2017, superata la regola con cui le Sezioni Unite avevano stabilizzato nel 2014 il senso e la portata della base legale della confisca allargata, si è inciso soprattutto sulla posizione del soggetto destinatario del provvedimento ablatorio, al quale peraltro anche sul piano testuale la disposizione di legge è riferita.
Un limite probatorio che riguarda in via diretta – anche testualmente – “il condannato” e che solo indirettamente, in via mediata, modifica gli oneri probatori dell’accusa; una disposizione fortemente incidente sul diritto di difesa, sul contenuto e sull’ambito dell’allegazione difensiva a discarico, sulla possibilità di “rompere” e superare la presunzione di illecita accumulazione, sulla prevedibilità dell’ablazione rispetto alla base legale stabilizzata e non controversa, per anni, dal 2014.
Si è intervenuti sul versante processuale appesantendo la portata dell’onere di allegazione perché, nell’ambito di una fattispecie complessa costruita su un chiaro alleggerimento degli oneri probatori per l’accusa, il divieto supera l’assetto legale stabilizzato e limita ulteriormente la posizione del soggetto destinatario del provvedimento ablatorio – o del prodromico provvedimento di sequestro – attribuendo alla presunzione di illecita accumulazione una portata ed un peso più pregnanti, trasformandola in una presunzione quasi assoluta.
Attraverso la ridefinizione dell’oggetto della “prova”, di cosa e come deve essere “provato”, è il processo a segnare il perimetro della ablazione; è il tema della legalità processuale e, in particolare, delle regole con cui si accerta, che, indirettamente, proietta la sua valenza sulla struttura della fattispecie.
Il legislatore è intervenuto modificando le regole probatorie di un accertamento processuale che si sviluppa nel tempo, che si proietta “indietro”, che ha carattere complesso e scomposto – perché riferibile ai singoli beni – e che può involgere beni acquisiti già prima che le Sezioni Unite nel 2014 chiarissero la base legale della fattispecie, ovvero beni acquisiti nel segmento di tempo successivo, intercorrente tra la pronuncia delle Sezioni Unite e l’introduzione nel 2017 della “nuova” regola probatoria, ovvero, ancora, nel segmento temporale successivo.
Una modifica normativa che pesa sulla posizione processuale del soggetto destinatario dell’ablazione, atteso che, dal 2014 al 2017, non solo non era vietato, ma era stato espressamente consentito giustificare la provenienza dei beni facendo riferimento ai redditi derivanti da attività lecite non dichiarate.
Non vengono modificati in via diretta i requisiti della ragionevolezza temporale e della sproporzione, limitandosi il novum ad interferire con questi dal versante processuale, ponendosi in discontinuità con le opzioni interpretative volte a conformare in senso garantistico il meccanismo probatorio della fattispecie ablatoria.
Si è già detto di come quello della “ragionevolezza temporale” sia un requisito di matrice giurisprudenziale attraverso il quale si è tentato di ricondurre all’interno dei confini di legittimità costituzionale e convenzionale una misura ablatoria che rivela l’esigenza di coordinare la sua indubbia efficacia operativa con le garanzie di diritti fondamentali.
Si è già detto di come la giurisprudenza, a fronte della presunzione di illecita accumulazione, abbia alleggerito la posizione del condannato con riguardo al contenuto dell’onere di allegazione e richiesto che il requisito della sproporzione sia riferito al momento in cui i singoli beni sono stati acquisiti.
[art. 11 preleggi e principio tempus regit actum]
16. Le caratteristiche dell’accertamento processuale – di durata, complesso, scomposto – che caratterizzano la confisca allargata, pongono l’esigenza, al fine di risolvere la questione rimessa alla decisione delle Sezioni Unite, di individuare un principio anfibio, capace di saldare legalità sostanziale e processuale, di sterilizzare possibili effetti limitativi delle garanzie della persona, di individuare, come osservato dalla dottrina, “uno statuto dinamico di garanzia, in grado di adattarsi al mutevole fenomeno del processo”.
La valenza prettamente processuale della norma introdotta con la legge n. 161 del 2017 impone di fare riferimento non tanto all’art. 236 cod. pen. e al principio della incondizionata retroattività della legge sopravvenuta, quanto, piuttosto, allo statuto intertemporale espresso dall’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, considerato un parametro valido ogni qual volta non debba farsi applicazione dei principi previsti dall’art. 25 Cost. e 2 cod. pen., ovvero 200 – 236 cod. pen.
16.1. L’art. 11 indicato prevede che la legge non dispone che per l’avvenire, cioè che essa non ha effetto retroattivo.
La regola assume valore di principio generale dell’ordinamento, pur non avendo valenza di principio costituzionale, ed opera come fondamentale criterio di interpretazione delle norma, laddove manchi una disciplina transitoria.
Ciascun “fatto” va tendenzialmente assoggettato al regime normativo vigente al tempo con cui si verifica (“tempus regit actum”).
Il riferimento alla formula “tempus regit actum” ha generato, quanto all’ambito penale, questioni ed incertezze; il principio è infatti riferibile non soltanto ad atti o fattispecie istantanee che, una volta realizzate, producono ed esauriscono i propri effetti, ma anche a modelli e istituti strutturalmente molto diversi tra loro e tuttavia frequenti: atti o fattispecie che non si compiono istantaneamente, ma entro un lasso di tempo; atti che, pur essendo istantanei, producono effetti perduranti; situazioni perduranti che prescindono dal compimento di un atto (Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista, in motivazione).
Quanto alla nozione di actus, tendenzialmente si esclude che esso coincida con l’intero procedimento, atteso che, in tal caso, tutti i processi pendenti continuerebbero ad essere regolati sempre e soltanto dalle norme vigenti alla sua instaurazione e il principio generale diverrebbe quindi quello della efficacia differita delle nuove norme, in contrasto con la disposizione dell’art. 11 delle preleggi.
È consolidata invece l’affermazione secondo cui la regola della efficacia immediata delle nuove disposizioni debba trovare applicazione solo se per actus si intenda ciascun “atto” da compiere o “fatto” processuale.
Non diversamente, quanto al tempus, si sono registrati contrasti.
Si afferma che la forma, le modalità, i requisiti di validità soggettivi ed oggettivi dei singoli atti processuali e, persino, la spettanza e l’esercizio di una determinata attività, dovrebbero essere sempre regolati dalla legge del tempo in cui l’atto è compiuto o l’attività esercitata.
Il corollario che se ne fa conseguire è, sul piano generale, che gli atti compiuti sotto il vigore della legge precedente conservano la loro efficacia se furono validamente compiuti in base alla legge del tempo.
Inteso nel modo indicato, si è fatto notare, la corretta applicazione del principio tempus regit actum implica la individuazione di due serie di atti processuali regolati da due leggi diverse: quelli compiuti, che restano disciplinati dalla legge del tempo in cui furono posti in essere, e quelli da compiere che sarebbero regolati dalla legge sopravvenuta.
Si tratta di affermazioni che non sempre in concreto riescono a risolvere i problemi di diritto intertemporale che derivano dal non essere l’atto processuale di agevole isolamento, e, soprattutto, dall’inserirsi molto spesso la norma sopravvenuta nell’ambito di un accertamento, come nel caso in esame, complesso e di durata, cioè in casi in cui rilevano situazioni di fatto che si ripetono ovvero perdurano nel tempo e che tra loro presentano una connessione.
In tema di tempus regit actum e disposizioni probatorie, le Sezioni Unite della Corte hanno spiegato che, se è vero che il procedimento probatorio è caratterizzato da un’essenza finalistica che si traduce in un inscindibile collegamento tra la prova stessa e il giudizio con l’ulteriore conseguenza che finché la res giudicanda non sia divenuta res giudicata il procedimento probatorio deve considerarsi ancora in corso e non reputarsi esaurito e il novum deve trovare applicazione, è altrettanto vero che non tutte le regole probatorie riguardano il procedimento probatorio unitariamente considerato, atteso che, quando la norma sopravvenuta è diretta solo a disciplinare diversamente le modalità di ammissione o di assunzione della prova, ovvero le condizioni di validità di determinati mezzi di prova, l’oggetto (actus) a cui riferire il principio intertemporale è costituito dalla singola attività istruttoria (Sez. U, n. 4265 del 25/02/1998, Gerina, Rv. 210199-01; nello stesso senso Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, Rv. 211192).
16.2. Al di fuori dell’art. 25 Cost., il tema dell’efficacia della legge interferisce peraltro con una molteplicità di diritti e principi costituzionali come quelli di uguaglianza, di difesa, di affidamento sulla certezza del diritto, del giusto processo.
La Corte costituzionale, anche nell’ambito di successione di leggi in materia diversa da quella processuale penale, ha ripetutamente individuato una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle norme sopravvenute – anche nel caso in cui tratti di interpretazione autentica di altre norme – che attengono alla salvaguardia di altri fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento; si è fatto riferimento: al rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si traduce nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; alla tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti, quale principio connaturato allo Stato di diritto; alla coerenza ed alla certezza dell’ordinamento giuridico; al rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (Corte cost., sent. n. 103 del 2013; Corte cost., sent. n. 209 del 2009; Corte cost., sent. n. 78 del 2011, Corte cost., sent. n. 15 del 2011, Corte cost., sent. n. 236 del 2011, Corte cost., sent. n. 393 del 2006).
Al legislatore non è vietato emanare norme retroattive sfavorevoli, ma dette disposizioni, al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto (Corte cost., sent. n. 349 del 1985; Corte cost., sent. n. 822 del 1988; Corte cost., sent. n. 16 del 2017).
In tal senso rileva non tanto una “aspettativa generica e non titolata di permanente vigenza di una determinata disciplina legislativa”, quanto, in particolare, “un affidamento qualificato dal suo intimo legame con l’effettività del diritto di difesa” (Corte cost., sent. n. 394 del 2002).
16.3. Una parte autorevole della dottrina è peraltro da tempo orientata a temperare la regola generale del tempus regit actum con riguardo ad alcune materie.
Si sostiene che un trattamento derogatorio alla regola prevista dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale al codice civile sarebbe giustificato in alcuni casi non tanto attraverso il superamento della tradizionale dicotomia diritto sostanziale/diritto processuale, quanto, piuttosto, in ragione della natura peculiare di specifiche norme per le quali sussisterebbe un fondamento garantistico a base costituzionale.
Senza giungere ad assimilare le norme processuali penali restrittive di diritti fondamentali – come quelle dettate in tema di libertà personale o di diritto alla prova – alle norme penali sostanziali, si è provato a porre in connessione, al fine di temperare il principio del tempus regit actum, il tema della successione di leggi processuali alla esigenza di tutela dell’affidamento del singolo.
La posizione della giurisprudenza è stata nel tempo quella di non aderire alla impostazione indicata (Sez. U, n. 44895 del 17/02/2014, Pinna, Rv. 260927; Sez. U, n. 27919 del 31/03/2011, P.G. in proc. Ambrogio, Rv. 250196, in tema di misure cautelari; Sez. U, n. 24561 del 30/05/2006, P.M. in proc. A., Rv. 233976).
E tuttavia le stesse Sezioni Unite hanno anche chiarito che in relazione al principio tempus regit actum assume rilievo l’esigenza di tutela dell’affidamento maturato dalla parte in relazione alla fissità del quadro normativo.
L’affidamento costituisce un valore essenziale della giurisdizione, destinato ad integrarsi con l’altro – di rango costituzionale – della “parità delle armi” e soddisfa “l’esigenza di assicurare ai protagonisti del processo la certezza delle regole processuali e dei diritti eventualmente già maturati, senza il timore che tali diritti, pur non ancora esercitati, subiscano l’incidenza di mutamenti legislativi improvvisi” (Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista, cit.).
Non diversamente, in altra occasione, le Sezioni unite, sempre al fine di conformare il principio del tempus regit actum alle esigenze specifiche sottese alle materie di volta in volta interessate, pur non giungendo ad affermare che nella materia cautelare il principio in questione, nella sua accezione atomistica più rigorosa, debba essere superato, hanno tuttavia chiarito che, in alcune tematiche, i principi e le logiche formali debbano sovrapporsi a valutazioni valoriali, essendo la logica atomistica potenzialmente inappagante (Sez. U, n. 27919 del 31/03/2011, P.G. in proc. Ambrogio, cit.).
Il tema della tutela dell’affidamento è stato recentemente ripreso e sviluppato ulteriormente dalle Sezioni Unite, cui era stato demandato il quesito relativo a se l’art. 573, comma 1-bis, cod. proc. pen. si applichi a tutti i ricorsi pendenti al momento della sua entrata in vigore, in data 30 dicembre 2022, ovvero solo a quelli proposti nei confronti delle sentenze pronunciate successivamente a tale data.
Nell’occasione le Sezioni Unite hanno fatto esplicito riferimento alla possibilità che limiti o mitigazioni rispetto alla operatività del principio del tempus regit actum possano derivare non solo dal principio di “ragionevolezza”, ma anche dalla esigenza di tutela dell’affidamento” che il singolo deve poter nutrire nella stabilità di un determinato assetto normativo e che può essere strettamente incidente sull’effettività del diritto di difesa (Sez. U, n. 38481 del 25/05/2023, D, Rv. 285036).
[tutela dell’affidamento]
17. Dunque, al fine di individuare la norma processuale penale applicabile tra quelle interessate da un fenomeno successorio ovvero l’ambito applicativo di una norma processuale penale sopravvenuta, l’operatività del principio tempus regit actum può essere mitigata, temperata, in ragione della necessità di dare attuazione alle esigenze sottese ai plurimi principi di rilievo costituzionale (artt. 2,13,24 e 111 Cost. nonché 1, 6 Cedu) di cui si è detto, e, in particolare, alla tutela dell’affidamento dei consociati sull’assetto di una determinata base legale, stabilizzata dal diritto vivente.
Viene in rilievo una operazione valoriale dell’interprete di conformazione prudente, volta, da una parte, ad assicurare tutela ai diritti dell’individuo, effettività al diritto di difesa, prevedibilità di una ragionevole decisione, e, per converso, ad evitare che, attraverso l’introduzione di norme processuali incidenti in senso peggiorativo sull’accertamento della “responsabilità” in senso lato, si realizzino fenomeni di retroattività incontrollata e diminuzioni di garanzie per chi ha ragionevolmente confidato nell’assetto normativo precedente al novum processuale.
Un’applicazione del principio tempus regit actum temperata anche per le forme di punizione non penale.
[beni acquisiti dal 29.5.2024 al 19.11.2017]
18. Tali principi valgono anche in relazione ad una fattispecie complessa come quella della confisca allargata.
Rispetto ad una norma sopravvenuta a carattere prettamente processuale e peggiorativa per il condannato del precedente – stabilizzato – assetto legale, la necessità di individuare un principio capace di contemperare il tempus regit actum con le esigenze sottese ai principi costituzionali di cui si è detto, discende dalla stessa struttura della fattispecie ablatoria, in cui la valutazione sulla illecita accumulazione in rem è sempre temporalmente di durata, può attenere ad un segmento temporale ampio ed ha carattere scomposto.
La confisca allargata, pur non avendo natura strettamente “penale”, è caratterizzata per il riferirsi ad una concatenazione di atti e fatti collocati in tempi diversi, rispetto ai quali occorre avere riguardo all’affidamento della parte di potersi difendersi “provando” al fine di superare la presunzione di illecita accumulazione.
Limitatamente ai beni acquisiti nel periodo intercorrente tra il 29 maggio 2014 – data della sentenza delle Sezioni Unite “Repaci” – e il 19 novembre 2017 – data di entrata in vigore della legge n. 161 del 2017 – la posizione processuale del condannato era misurata su un assetto normativo consolidato e chiarificatore della base legale della confisca, del suo significato, del suo ambito operativo, del contraddittorio e del diritto di difesa.
Con riferimento al periodo temporale indicato, come già detto, provare la legittima provenienza dei singoli beni facendo riferimento ai redditi leciti non dichiarati, non solo non era vietato ma era espressamente consentito da anni.
Il limite probatorio sopravvenuto non costituisce per il condannato una modifica accessoria peggiorativa della base legale consolidata, un mero “aggiustamento cosmetico” (Sez. U., n. 38481 del 25/05/2023, D., cit.), ma incide profondamente sul pregresso assetto normativo, mutandolo nella regolamentazione e nel rapporto tra diritto e processo.
A diverse conclusioni deve invece pervenirsi non solo, chiaramente, rispetto ai beni acquistati dopo l’entrata in vigore del divieto probatorio, cioè dal 19 novembre 2017, ma anche per i beni acquistati prima della pronuncia della sentenza “Repaci”, non essendo configurabile in relazione a quel periodo un affidamento da tutelare.
Si è già detto, infatti, come dai lavori preparatori alla legge n. 161 del 2017 emerga chiara l’intenzione del legislatore di introdurre il limite probatorio in esame proprio per superare l’assetto normativo stabilizzato solo dal 2014 con la sentenza delle Sezioni Unite “Repaci”.
[superamento di entrambi gli orientamenti contrapposti]
19. Nessuno dei due orientamenti in contrasto è, dunque, interamente condivisibile.
Non il primo, quello più restrittivo, fondato sulla incondizionata applicazione retroattiva del divieto probatorio sopravvenuto, perché si limita a fare riferimento alle norme generali dettate in tema di misura di sicurezza, di cui agli artt. 200-236 cod. pen., senza tuttavia cogliere le implicazioni della norma sopravvenuta per i diritti dell’individuo e per l’affidamento incolpevole dei consociati in relazione alla complessità dell’accertamento processuale sottostante la fattispecie prevista dall’art. 240-bis cod. pen.
Neppure il secondo indirizzo giurisprudenziale è interamente condivisibile, perché, pur cogliendo le connessioni tra il novum e i diritti dell’individuo, finisce per escludere l’operatività del principio tempus regit actum anche in relazione ad un lasso di tempo – quello precedente alla pronuncia della sentenza “Repaci” – in cui la base legale della misura ablatoria non consentiva di attribuire rilievo, in termini di ragionevole certezza, alla possibilità di superare la presunzione di illecita accumulazione facendo riferimento ai redditi leciti non dichiarati al fisco.
[il principio di diritto]
20 Va conseguentemente affermato il seguente principio di diritto:
“Il divieto previsto dall’art. 240-bis cod. pen., introdotto dall’art. 31 legge 17 ottobre 2017, n. 161, di giustificare la legittima provenienza dei beni oggetto della confisca c.d. allargata o del sequestro ad essa finalizzato, sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale, si applica anche ai beni acquistati prima della sua entrata in vigore ad eccezione di quelli acquisiti nel periodo tra il 29 maggio 2014, data della pronuncia delle Sezioni Unite n. 33451/2014 ric. Repaci, e il 19 novembre 2017, data di entrata in vigore della legge n. 161 del 2017″.
21. È fondato dunque il primo motivo di ricorso.
Escluso per le ragioni già esposte che la confisca allargata abbia carattere sanzionatorio – punitivo e natura penale, dall’atto di appello emerge come il Pubblico Ministero con la domanda cautelare e lo stesso Giudice per le indagini preliminari con il provvedimento di sequestro, nel determinare l’oggetto del vincolo cautelare, avessero fatto espresso riferimento a redditi derivanti da attività lecita e non dichiarati al fisco conseguiti dal ricorrente dal 2010 fino al 2017.
Sulla base di tale presupposto il ricorrente, con l’atto di appello, aveva devoluto al Tribunale la questione relativa all’ambito applicativo del divieto probatorio introdotto con l’art. 31 della legge n. 161 del 2017 e il Tribunale, aderendo all’indirizzo più restrittivo, aveva rigettato il motivo di appello affermando la indistinta applicabilità del divieto probatorio a tutti i beni acquistati anche prima della sua entrata in vigore.
Dunque, in ragione del principio di diritto enunciato, una errata applicazione della legge.
Sul punto, l’ordinanza impugnata deve essere annullata. Il Tribunale, in sede di rinvio, valuterà se, in ragione del principio di diritto affermato, con riferimento ai beni acquistati con entrate di denaro ricomprese nel lasso temporale tra il 29 maggio 2014, data della pronuncia delle Sezioni Unite “Repaci”, e il 19 novembre 2017, data di entrata in vigore della legge n, 161 del 2017, sussistano i presupposti per procedere al sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 240 -bis cod. pen.
22. È invece inammissibile il secondo motivo di ricorso, relativo alla corretta applicazione nella specie del criterio della ragionevolezza temporale al fine di circoscrivere la portata del sequestro; si tratta di un motivo precluso, non essendo stata dedotta la questione con l’atto di appello.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente al primo motivo di ricorso e rinvia per nuovo esame sul punto al Tribunale di Bari.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Così deciso il 26 ottobre 2023.
La sentenza in sintesi
Premessa sulla normativa: l’art. 12-sexies, co. 1 d.l. 08.06.1992, n. 306, conv. con mod. dalla l. 07.08.1992, n. 356, prevedeva la confisca c.d. allargata, poi trasfusa nel nuovo art. 240-bis c.p. (introdotto dal d.lgs 01.03.2018, n. 21); l’art. 31 l. 17.10.2017, n. 161 (in vigore dal 19.11.2017) aveva modificato il citato art. 12-sexies, tra l’altro introducendo, alla fine del co. 1, il seguente inciso: “In ogni caso il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale”, e successivamente il d.l. 16.10.2017, n. 148, conv. con mod. dalla l. 04.12.2017, n. 172, aveva aggiunto alla previsione di tale divieto la clausola di riserva: “salvo che l’obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge”; tale inciso, unitamente all’indicata clausola di riserva, compare ora anche nell’art. 240-bis c.p. nel quale è rifluito l’art. 12-sexies.
Premessa su S.u. 29.05.2014 n. 33451/14 Repaci: sentenza anteriore alla indicata modifica dell’art. 12-sexies ad opera della citata l. n. 161/2017; secondo le S.u., rispetto alla confisca allargata non vale il divieto – applicabile invece alla confisca di prevenzione – di giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego di evasione fiscale.
La questione di diritto sottoposta alle S.u.: se per il soggetto destinatario di un provvedimento di confisca c.d. allargata (o di sequestro finalizzato a tale tipo di confisca) il divieto – già stabilito dall’art. 12-sexies, co.1, d.l. 08.06.1992, n. 306, come modificato dall’art. 31 l. 17.10.2017, n. 161 e oggi previsto dall’art. 240-bis, co. 1 c.p. – di giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego di evasione fiscale, valga anche per i cespiti acquistati prima del 19.11.2017, giorno di entrata in vigore dell’art. 31 della l. n. 161/2017.
La decisione delle S.u.: il divieto ora previsto dall’art. 240-bis c.p., introdotto nell’art. 12-sexies cit. dall’art. 31 l. 17.10.2017, n. 161, di giustificare la legittima provenienza dei beni oggetto della confisca c.d. allargata (o del sequestro ad essa finalizzato), sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale, si applica anche ai beni acquistati prima della sua entrata in vigore ad eccezione di quelli acquisiti nel periodo tra il 29.05.2014, data della pronuncia della sentenza S.u. Repaci, e il 19.11. 2017, data di entrata in vigore della legge n. 161/2017;
argomenti: la sentenza S.u. Repaci ha avuto l’effetto di “stabilizzare” il principio affermato dalla prevalente giurisprudenza, secondo il quale, diversamente da quanto previsto per la confisca di prevenzione, nel caso di confisca allargata il condannato può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale; proprio al fine di superare il principio affermato dalle S.u. Repaci la l. 7.10.2017, n. 161 ha introdotto il divieto di tale giustificazione; l’operatività del principio tempus regit actum, rispetto all’applicazione della l. n. 161/2017, deve essere “mitigata, temperata, in ragione della necessità di dare attuazione alle esigenze sottese a plurimi principi di rilievo costituzionale (artt. 2,13, 24 e 111 Cost. nonché 1, 6 Cedu)” ed in particolare, “alla tutela dell’affidamento dei consociati sull’assetto di una determinata base legale, stabilizzata dal diritto vivente” (nel caso di specie ad opera della S.u. Repaci); questo giustifica una interpretazione “valoriale”, che, superando la contrapposizione tra retroattività o irretroattività del divieto introdotto dalla l. n. 161/2017, afferma l’applicabilità del principio affermato dalle S.u. Repaci (possibilità di giustificare la legittima provenienza di beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale) ai beni acquistati tra il 29.05.2014 (data della pronuncia della sentenza S.u. Repaci) ed il 19.11.2017, data di entrata in vigore della legge n. 161/2017.
Norme: art. 240-bis
art. 240-bis (Confisca in casi particolari).
Nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per taluno dei delitti previsti dall’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 322, 322-bis, 325, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 453, 454, 455, 460, 461, 517-ter, 517-quater, 518-quater, 518-quinquies, 518-sexies e 518-septies, nonché dagli articoli 452-bis, 452-ter, 452-quater, 452-sexies, 452-octies, primo comma, 452-quaterdecies, 493-ter, 512-bis, 600-bis, primo comma, 600-ter, primo e secondo comma, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, 603-bis, 629, 640, secondo comma, numero 1, con l’esclusione dell’ipotesi in cui il fatto è commesso col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare, 640-bis, 644, 648, esclusa la fattispecie di cui al quarto comma, 648-bis, 648-ter e 648-ter.1, dall’articolo 2635 del codice civile, o per taluno dei delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine costituzionale, è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica. In ogni caso il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale, salvo che l’obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge. La confisca ai sensi delle disposizioni che precedono è ordinata in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta per i reati di cui agli articoli 617-quinquies, 617-sexies, 635-bis, 635-ter, 635-quater, 635-quinquies quando le condotte ivi descritte riguardano tre o più sistemi.
Nei casi previsti dal primo comma, quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui allo stesso comma, il giudice ordina la confisca di altre somme di denaro, di beni e altre utilità di legittima provenienza per un valore equivalente, delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona.
Sentenza s.u. 29.05.2014 Repaci
S.u. 29.05.2014, n. 33451/14, Repaci,
Rv. 260244-01: In tema di confisca di prevenzione di cui all’art. 2 ter legge 31 maggio 1965, n. 575 (attualmente art. 24 D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159), la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del proposto non può essere giustificata adducendo proventi da evasione fiscale, atteso che le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre alla disponibilità dell’interessato tutti i beni che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso.
Rv. 260247-01: La confisca di prevenzione e la confisca cosiddetta “allargata”, di cui all’art. 12 sexies D.L. 8 giugno 1992, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1992, n.356, presentano presupposti applicativi solo in parte coincidenti, atteso che per entrambe è previsto che i beni da acquisire si trovino nella disponibilità diretta o indiretta dell’interessato e che presentino un valore sproporzionato rispetto al reddito da quest’ultimo dichiarato ovvero all’attività economica dal medesimo esercitata, tuttavia solo per la confisca di prevenzione è prevista la possibilità di sottrarre al proposto i beni che siano frutto di attività illecita ovvero ne costituiscano il reimpiego.
Dalla motivazione:
“Risulta del resto coerente con l’evidenziata diversa struttura normativa [della confisca c.d. allargata e della confisca di prevenzione] che per la confisca ex articolo 12 sexies, che prevede che il requisito della sproporzione debba essere confrontato con il “reddito dichiarato” o con la “propria attività economica”, si possa tener conto dei redditi, derivanti da attività lecita, sottratti al fisco (perché comunque rientranti nella propria “attività economica”) secondo i più recenti e prevalenti approdi giurisprudenziali in tale ambito (da ultimo Sez. 1, n. 13425 del 21/02/2013, Coniglione, Rv. 255082; Sez. 1, n. 6336 del 22/01/2013, Mele, Rv. 254532; Sez. 1, n. 9678 del 05/11/2013, dep. 2014, Creati).
Coerente peraltro è, sempre con riferimento alla diversa struttura normativa della specifica previsione, che tale approdo non possa essere applicabile alla confisca di prevenzione per la quale rileva – e dunque non è deducibile a discarico – anche il fatto che i beni siano “il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”. Sicuramente l’evasione fiscale integra ex se attività illecita (contra legem) anche qualora non integri reato; né si può ignorare che la sottrazione di attività, pur intrinsecamente lecite (e cioé da impresa palese, non da mafia), agli obblighi fiscali (in tutto o in parte), inevitabilmente porta con sé altre connesse illiceità, non essendo neppure immaginabile che l’evasione fiscale non comporti anche altre correlate violazioni che parimenti locupletano il soggetto o sono strumentali all’illecito arricchimento (condotte di falso, in ambito contributivo, sulla disciplina del lavoro, ecc.) posto che – allo stato attuale della normativa, per l’interconnessione tra i vari rami dell’ordinamento – sommergere i profitti significa anche inevitabilmente eludere tutte le connesse discipline (ancorché di rango amministrativo o privatistico), altrimenti l’evasione fiscale si autodenuncerebbe, esito che ovviamente nessun evasore vorrebbe conseguire e che, soprattutto, non consentirebbe il perseguito arricchimento”.
Spunti di approfondimento
- Sulla sentenza S.u. 26.10.2023, n. 8052/24, Rizzi, v. G. Piffer, Manuale di diritto penale giurisprudenziale, 2024, II,5.2; XVII,8.3.4.
- Sulla confisca allargata (o in casi particolari), v. G. Piffer, Manuale, cit., XVII,8.3.
- Sul formante giurisprudenziale in sede sovranazionale e nazionale v. G. Piffer, Manuale, cit., II,4.4.2.3; II,5.
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Note
1 Le parole tra parentesi quadra, le diverse grandezze dei caratteri ed il grassetto di alcune parole non sono presenti nella sentenza e sono stati inseriti per evidenziare i concetti fondamentali.